Posted Giugno 25th, 2017 at 3:46 pmNo Comments Yet
E. arriva su invio di una psicologa psicoterapeuta. I racconti dei genitori mi narrano di una bambina molto intelligente ma con spiccate difficoltà comportamentali, soprattutto nella modulazione delle reazioni alla frustrazione. Sia alla scuola dell’infanzia, sia con i genitori, sia con la famiglia, E. presenta improvvisamente delle “esplosioni di collera” che mettono in allarme gli adulti e che risultano di difficile gestione.
Dopo l’anamnesi, accolgo la bambina nella stanza di psicomotricità per le prime sedute di osservazione e valutazione.
Durante il gioco, al bambino è concesso di ripresentare la sua storia, con i suoi piaceri e i suoi dispiaceri. E. all’inizio non riusciva a rappresentare per intero una storia. Presentava un’attività controllata, e controllante, che all’improvviso perdeva di coerenza, diventando qualcosa di sporco e provocatorio ma totalmente avulso dal contesto (si costruivano puzzette – con tanto di rumore – si mangiava vomito…). La bambina stessa in queste situazioni perdeva la capacità di autoregolarsi, assumendo posture che rimandavano a un corpo spezzato e un tono di voce grossolano, non modulato. Lessi in questi comportamenti la rappresentazione di angosce arcaiche: mi sembrava che E. non fosse capace di accettare e sostenere anche gli aspetti “non positivi” della realtà, che quindi tendeva a scindere dal suo gioco, relegandoli in un momento non contestualizzato ed estremo. Ma questo comportamento non risultava adattivo: E. comunque si “spezzava” quando le angosce emergevano, non trovando in sé la possibilità di attenuarle né di contenerle.
La bambina inoltre risultava bloccata nella sua azione corporea, non permettendosi di fare tutte quelle attività di disequilibrio che portano, per un attimo, alla perdita di controllo della propria postura e dei propri movimenti nello spazio.
Restituisco ai genitori queste mie impressioni, parlando di un progetto che ha come obiettivo primario quello di permettere ad E. di sentire se stessa, il suo corpo e il suo vissuto (anche negativo) come un unico indivisibile. Gli imprevisti, le “cose brutte”, gli “scivoloni” accadono: non possiamo separarli da noi, perciò è meglio trovare dentro di noi la capacità di accoglierli e affrontarli.
E. andava quindi contenuta nelle sue angosce, che però era necessario fossero riconosciute come possibili, per tutti, e accettate.
Durante le sedute lavoriamo molto sulla spazializzazione. Il gioco lo inventa E., ma io le creo sempre un contesto che contiene tutto quello che lei mi porta. Anche le sue rappresentazioni più estreme vengono accolte senza giudizio e inserite in un contesto: la cacca ha il suo spazio, il vomito pure.
I primi incontri vedono E. assumere un ruolo direttivo: lei è la madre, o la regina, e io devo ascoltare tutti i suoi “ordini”. Eseguo, mettendomi a sua disposizione. Ma, dopo un po’ di incontri, inizio ad agire il ruolo di colei che non accetta quello che viene proposto dall’altro – perché ha un cattivo sapore, perché non mi piace, perché non lo voglio fare… – finendo poi però per “mandare giù” lo stesso l’“amaro boccone” (non senza lamentarmi). Cerco insomma di far capire che possiamo mettere dentro di noi anche le cose peggiori senza venirne distrutti.
E. osserva tutte queste mie reazioni. Le prime volte sembra spaventata ma anche divertita dalla mia “sofferenza” giocata, mostrando un po’ di sadismo. Gli incontri proseguono, molto simili l’uno con l’altro.
E poi, un giorno, dopo circa 12 sedute, esce da questa sua posizione leggermente persecutoria e mostra la capacità di prendersi cura: crea un intero parco giochi solo con dei legnetti, mette molte famiglie in questo parco giochi, e – quando uno dei bambini-legnetto si “fa male”, chiede in autonomia di costruire un ospedale per curare il bambino. Lo porta lei, insieme a tutta la “famiglia”, e fa anche la parte del dottore. E. insomma ha cambiato atteggiamento: adesso si preoccupa per gli altri, e trova il modo di aiutarli!
Ecco allora che c’è stato il passaggio: E. si può permettere di riconoscere le sue angosce, di accettare che avvengano “cose brutte”, e di pensare a cosa fare per superare il momento difficile. Il gioco diventa condiviso: E. si diverte, ride, mi conduce all’interno della sua enorme fantasia, inventando scenari sempre più ricchi e variati.
Ormai ce l’abbiamo fatta. Le case sono sempre più grandi e accoglienti, c’è spazio per la bambina dispettosa, l’animale, un po’ di disordine, l’imprevisto. E. si lancia, salta, si mette in gioco e mette in gioco il suo corpo, per intero: agisce liberamente con se stessa, su se stessa, sperimentando tutte le sue parti, conoscendole, e integrandole. “Il bambino che agisce liberamente forma il proprio pensiero”, dice B. Acouturier.
Il suo sviluppo del sé è completo. La terapia con E. giunge al termine.
Ed ecco che la bambina crea questa questa bellissima rappresentazione: una sirena. Un po’ ragazza meravigliosa, un po’ animale. Tutto insieme. Unito. Senza dover tagliare via qualcosa dalla sua personalità, così ricca e complessa.
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