L’intelligenza emotiva e la psicomotricità

Ho deciso di provare a scrivere su un tema che mi sta molto a cuore.

Non è facile riversarlo in parole, spero comunque di ottenere un risultato comprensibile a chi legge.

Iniziamo con una citazione
“Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” (Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe).

Questa frase è bellissima e riassume secondo me il significato della nostra vita: arrivare a vedere con il cuore. Comprendere il mondo che ci circonda attraverso le nostre emozioni.
Non è facile, e soprattutto da bambini le nostre emozioni sono per di più un fardello ingombrante che quasi ci offusca la vista di quello che sta davanti, perché quando arriva un’emozione noi siamo tutta gioia, tutta rabbia, tutta tristezza.
Sarà il tempo a permetterci di regolare la nostra risposta all’ambiente, anche da questo punto di vista, permettendoci di sviluppare e regolare la nostra intelligenza emotiva.

Ma come si crea nel tempo questa intelligenza emotiva? Attraverso continui scambi empatici fra l’ambiente di riferimento del bambino (principalmente i genitori, o care-giver) e il bambino stesso. Questi scambi devono consentire al bambino di dare un nome alle sue emozioni, comprenderle, sentire da dove vengono, sapere di poterle esprimere, e permettergli anche di regolarle nelle loro manifestazioni.

Il care-giver sarà quindi di aiuto al bambino:
Accogliendo e dando valore ad ogni emozione provata dal bambino
Aiutando tutte le emozioni ad esprimersi, senza alcuna censura, anche in tutta la loro prorompenza
Ponendo dei confini chiari ai comportamenti problematici che i bambini possono assumere come conseguenza delle loro emozioni

L’attività psicomotoria comprende molti ambiti dello sviluppo del bambino, ma forse il più importante è quello di aiutarlo in questo percorso di sviluppo dell’intelligenza emotiva.
Il bambino entra nella stanza e svolge attività di gioco libera e spontanea, perché il gioco, soprattutto se motorio e di disequilibrio, è un potente strumento per narrare la propria storia profonda, le proprie emozioni e le proprie angosce, in un contesto in cui si senta sicuro, ascoltato e valorizzato nelle sue potenzialità. Il tutto all’interno di un quadro ben preciso, costituito da obiettivi, da un dispositivo spaziale e temporale e dall’atteggiamento caloroso e attento di un adulto che sappia comprendere il senso del suo agire.
Lo psicomotricista dunque si porrà di fianco al bambino, lo sosterrà nel suo gioco, rispecchierà i suoi agiti e i suoi sentimenti, per permettere al bambino di compiere un vero e proprio percorso di maturazione psicologica, che consente il graduale passaggio dal corpo al linguaggio, ed una presa di distanza dalle emozioni, a partire dalla possibilità di esprimerle, di riconoscerle e di sfumarle in forme di pensiero e di comunicazione.

Ho parlato forse un po’ tecnico. Provo a riassumere: il bambino (qualsiasi bambino, anche quello “sano”) entra in stanza di psicomotricità con un groviglio, dentro la pancia, di emozioni e pensieri e movimenti (perché all’inizio queste cose sono sempre aggrovigliate), e grazie allo spazio e allo psicomotricista fa un percorso in cui sbroglia lentamente questo groviglio.

Pensiamo però un po’ anche ai bambini che invece hanno la maggior parte dei problemi proprio lì, nell’intelligenza emotiva.
Chi vi viene in mente?
Il bambino autistico. Il bambino autistico che non sa riconoscere le emozioni altrui, non sa rispecchiarsi (ci sono degli studi bellissimi che sembrano spiegare molte delle difficoltà dell’autismo attraverso una carenza dei neuroni mirror, quei neuroni che si sono sviluppati per farci sentire empaticamente le intenzioni dell’altro), non sa cosa prova.
Questo bambino non ha gli strumenti per crearsi una propria intelligenza emotiva.
E allora cosa succede? Che in stanza di psicomotricità è il terapista a crearla per lui, enfatizzando le sue azioni, le sue espressioni del viso, mettendosi al suo fianco e agendo in costante empatia con lui.

Ultimamente però sempre più spesso, al bambino autistico, viene proposto un condizionamento.
Un’attività che non prevede la comprensione emotiva dello sviluppo delle competenze, ma che “educa” il bambino a comportarsi in un determinato modo in una determinata situazione.
Funziona?
Spesso.
Mi piace?
Non tanto.
Perché io mi sento di aver davanti una persona, verso cui nutro un grandissimo rispetto e fiducia nelle sue capacità di scegliere la sua strada, e non quella fissata da altri, in quanto soggetto attivo del proprio divenire. Una strada che viene scelta perché emotivamente la persona la avverte come giusta, e non perché ottiene un cioccolatino se la sceglie.
E nonostante quello sia il tipo di terapia che fa sentire tranquilli molti genitori, a me dispiace pensare che non si riesca a far fermare questa famiglia per guardare, guardare davvero, CHI hanno davanti, senza pensare a CHI vorrebbero che diventasse.

Spero si capisca che non sto scrivendo contro la famiglia che sceglie questa determinata strada (che comunque preferirei venisse affiancata da un percorso psicomotorio). Mi spiace solo, tanto, che non ci sia possibilità di accogliere completamente i genitori, i fratelli, tutti quanti vivono con un bimbo autistico, per sollevarli dalle loro fatiche e lasciare che osservino, con la maggiore serenità possibile, la persona che sta al loro fianco, con particolare attenzione verso ciò che sa fare, le sue caratteristiche speciali, le sue potenzialità e la sua dinamica evolutiva. Perché nessuno di noi è “una patologia”, una “definizione clinica”, spesso immutabile: ognuno è un individuo, ognuno è protagonista della sua personale storia.

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